
Dopo l’incontro del 17 gennaio con Matteo Bussola, mi è venuta voglia di leggere “La neve in fondo al mare”. È un romanzo che fa male, tanto. Lo leggi e senti il peso della sofferenza dei personaggi, te lo porti dietro anche dopo aver chiuso il libro. Ma vale la pena leggerlo.
Già il titolo mi ha colpita: mi fa pensare a qualcosa di fragile, quasi impossibile, proprio come il dolore che attraversa i protagonisti.
Una delle cose che mi ha lasciato più il segno è il modo in cui Bussola racconta il rapporto tra dolore e amore. Non avevo mai pensato che si potesse arrivare a odiare un figlio per quanto male ti fa stare, eppure in questo libro succede. E succede in modo crudo, senza giudizi, quasi con cinismo. È terribile.
Ma poi arrivano le ultime pagine, e cambiano tutto. Caetano dice: “L’amore non c’entra con il merito. Non ti voglio bene perché fai le cose giuste”. L’ho sempre pensato anche io: l’amore per un figlio è gratuito, totale, senza condizioni. Ma quando aggiunge “Anzi, più non mi piaci e più ti voglio bene”, lì ho vacillato.
Mi ha colpito molto anche il rapporto tra i genitori dei ragazzi: anche loro, in un certo senso, sono ricoverati. Bloccati nel loro dolore, incapaci di dargli un nome, eppure trovano il modo di farsi compagnia. E poi ci sono le madri, quelle che magari non arrivano a odiare i loro figli, ma che semplicemente non ce la fanno a reggere tutto quel dolore.
Un aspetto che ho apprezzato è che Bussola non cerca di insegnarti niente, non ti dice cosa pensare. E questo mi piace, perché a volte nei romanzi si sente troppo la mano dell’autore che vuole portarti da una parte precisa, e a me questo irrita. Qui no. Qui lui racconta, e basta. Ti mette davanti alle storie di ragazzi fragili, adolescenti che rifiutano il cibo o che si fanno del male, e lascia che sia tu a fare i conti con quello che provi.
Alla fine mi sono ritrovata a farmi delle domande. Perché Caetano riesce a dire certe cose mentre Franco o Eva no? Cos’è che permette a qualcuno di arrivare a quel punto?