La canzone dell’ulivo. Pascoli e la speranza

Cen Long, Ciò che appassisce fiorirà di nuovo, 2018

La canzone dell’ulivo è un testo poco noto di Pascoli pur essendo contenuto nei celebri Canti di Castelvecchio. Come dice il titolo, il testo presenta la struttura propria della canzone di tradizione medioevale e in quanto canzone vuole celebrare l’ulivo e le sue caratteristiche di resistenza, utilità e il senso di pace che comunica a partire dalla tradizione pagana (dono della dea Atena), fino alla tradizione biblico-cristiana.
A questa lettura, già comune e comprensibile agli uomini del suo tempo, Pascoli ne propone un’altra, in cui erge, l’ulivo, a simbolo di vita compiuta.

“L’ulivo che soffre ma bea,
che ciò ch’è più duro, ciò crea
che scorre più molle.”

L’ulivo che soffre, soffre perché deve lottare con il terreno, con le intemperie per crescere e dare frutto, ma il cui frutto sarà poi ciò che “scorre più molle”, più dolce, l’olio che giova all’uomo. L’ulivo insomma è per Pascoli il simbolo della sofferenza non fine a se stessa ma per un bene futuro ( “occorre che il chicco di grano muoia per dare frutto”).
Non solo, l’ulivo si erge a simbolo di cura intergenerazionale e comunitaria

“Per sè, c’è chi semina i biondi
solleciti grani […]”

“Per sé, c’è chi pianta l’alloro
che presto l’ombreggi e che sopra
lui regni, […]”

e aggiunge “Non c’è male”, non è sbagliato pensare a sé, ai propri bisogni ma

“Non male. Noi mèsse pei figli,
noi, ombra pei figli de’ figli,
piantiamo l’ulivo!”

se vogliamo costruire, se vogliamo lasciare un’eredità fruttuosa “piantiamo l’ulivo!” piantiamo qualcosa che sia buono per i figli dei nostri figli “non dare a noi nulla; ma resta!”, resta per chi amiamo, di generazione in generazione e allora la morte non sarà più buia

“ma nutri il lumino soletto
che, dopo, ci brilli sul letto
dell’ultima pace!”